Ciao Marcello, grazie per la tua disponibilità.
“Il disinganno prima dell’illusione” è il tuo motto.

1) Qual è la più profonda differenza tra disinganno e disillusione?

Ti ringrazio, Simon James, per avermi posto la domanda e per averla posta in questi termini. Solitamente mi vedo costretto a chiarire l’equivoco con cui di norma si confonde disincanto con disillusione, evidenziando che il primo non ha nulla a che vedere con la seconda, la quale presuppone un essersi tuffato nell’illusione per poi scoprire l’inganno che questa nascondeva, e ritrarsi scoraggiato.
Viceversa il disinganno è un non cadere nel tranello dell’illusione perché già a priori la si riconosce ingannevole.

Disingannarsi non è un atto volontario come non lo è il disilludersi anche se in misura minore. Sono entrambi modi di reagire alla realtà. Mi riferisco ovviamente a chi vive, in modo intensamente intellettivo, le proprie esperienze. Di solito infatti si preferisce illudersi, salvo poi rimanere delusi.

Disingannarsi è un allontanarsi spinto da eventi, sempre dolorosi, che educano a guardarsi intorno e scoprire la vanitas di ogni realtà.
A me lo hanno insegnato involontariamente i miei genitori con metodi che non prevedevano comprensione e dialogo, ma autorità e obbedienza. Cito la frase di Vincent La Soudière che bene spiega il senso di questa mia reminiscenza: ”Se non ho gridato abbastanza nell’attimo in cui sono nato, non è stato per mancanza d’aria, ma per assenza di baci”
Autorità dei miei dunque, che tuttavia la esercitavano in anni di grandi trasformazioni politiche sociali e morali, che rendevano tutto fluido incerto e provvisorio. Autorità e pretesa obbedienza che si sfaldavano come pilastri immersi nel fondo instabile del mare che tempestoso ribolliva intorno.

Sin da piccolo mi rifugiavo in qualche cantuccio. E crescendo ho appreso anche il disinganno di quei poeti, che in quanto tali, lo vivono come l’aria che respirano, anche se lo nominano assai raramente.
Mi permetto di riportare questi miei versi che credo meglio esprimano il mio pensiero riguardo al sorgere in me della necessità del disinganno. (nella poesia mi riferisco alla figura di mio padre e poi a quelle degli autori che mi hanno confermato nelle mie convinzioni: Pavese, Pasolini, Baudelaire)

Una domanda

Fra coloro che senza saperlo mi prodigarono
gli oceani tormentati delle loro anime
con i gesti le parole e i sentimenti
da chi fui generato? Voglio sapere.
Se dal violento che moltiplicava i miei sogni
sfogliando la voce dei morti
e li conficcava come carne nella mia mente
urlando battendo i pugni
sulle spalle della mia fanciullezza.
O dal poeta che mi passò morendo
il veleno del disinganno
e il gusto acido dell’amore rifiutato.
O forse da quel giovane timido
che cercò in sua madre
le dolci forme dell’amore sensuale
e in suo nome lo uccisero.
O dal condannato che vide bruciare
come una fenice i suoi versi francesi
e m’insegnò che i saltimbanchi soltanto
vengono incoronati con l’alloro fiorito.
O dai libri che ho scritto nelle ore grevi
come viso e occhi
sulle consuetudini dell’uomo
sui declivi della vita
sulle forme inafferrabili dell’amore
e nel loro silenzio polveroso ignorano
se esisto ancora.

Voglio sapere. Ma è una domanda
a cui solo i morti possono rispondere.

2) In che modo il disinganno può diventare nostro alleato?

Questa domanda presuppone una volontà volta ad acquisire la capacità del disincantarsi. Essa ha bisogno di una risposta che chiama in causa innumerevoli comportamenti che sono analizzati nella filosofia contenuta del breve Manuale dello stoico Epitteto, che invito tutti a leggere.
Io che ho la fortuna di un’infanzia sfortunata, l’ho letto quando la parole del filosofo hanno assunto il valore di conferma del mio modo di guardare all’esistenza tutta.

Epitteto ovviamente non parla di disinganno né tanto meno di disillusione quanto di felicità o infelicità.
Ma il leggerlo conduce a comprendere la natura del disinganno, come ottenerlo, quali personalità sono in grado di conseguirlo e quanto possa risultare nostro alleato.

Già a partire dal “Preambolo” che Giacomo Leopardi ha posto come prefazione alla sua traduzione del citato Manuale, si è in grado di comprendere come solo coloro che hanno ”cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi” possono trovare un alleato nel disinganno. Il poeta conclude il Preambolo con queste considerazioni: ”Imperocché veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di fuori viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile.”

Il “non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice” fa pensare al disincanto come a un atteggiamento abulico, indifferente ad ogni emozione, tranne che all’amore per se stessi.
Eppure passeggiamo ammirando ciò che ci circonda, sogniamo mete future e luminose, sogniamo un amore eterno e speriamo d’incontrarlo. Se abbiamo fortuna (o un favorevole Destino) lo incontriamo col desiderio che non abbia mai fine. Ma Stig Dagerman nel suo Vårt behov av tröst (Il nostro bisogno di consolazione) ci dice:“Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso sentire la morte che mi accerchia”. La morte sta lì, dietro l’angolo, dentro un’auto che sbanda all’improvviso e ci viene addosso, in un male che ci rode le viscere, in un medico che sbaglia la diagnosi e di conseguenza la cura (come esempio di male che rode le viscere – e il cuore – ho presente me stesso). O più semplicemente – per rimanere sul campo amoroso – senza scomodare la morte, ma a causa di quello che definiamo cattivo Destino, un altro uomo ci porta via la donna amata.

Ragionando sul non” curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice” che ne facciamo del nostro sogno d’amore? Lo abbandoniamo perché vano? Smettiamo di lottare e attendiamo? Ma cosa attendere? E attendere non è illudersi?

Dovremmo anche smettere di dormire e di mangiare, cioè dovremmo smettere di vivere. Questo lo ha fatto Pavese, ma non perché fosse senza sogni, ma perché desiderava sottrarre all’arbitrio del cattivo Destino il modo di andare incontro alla morte. In fondo Pavese era disilluso ma non disingannato, un Pavese che aveva assaggiato il frutto, deluso dalla presenza della scorza.

Il disinganno non toglie il piacere di vivere, quanto piuttosto dona di ogni cosa che viviamo, incontriamo, amiamo, temiamo, l’esatta dimensione della sua natura (il succo del frutto che beviamo, sapendolo custodito dalla scorza).
Per rimanere nell’ambito del tema amoroso, caro a qualsiasi essere umano, il disinganno ci fa chiedere quando finirà l’illusione che stiamo vivendo. “Finirà domani? Allora oggi godrò dell’amore il più possibile, ma ne darò anche affinché lei sappia quanto io l’ami e l’abbia amata.” E questo vale per l’impegno civile e sociale che ciascuno dovrebbe nutrire.

Ma tutto questo non vuol dire che il disinganno mi pone al riparo dal dolore, dall’amarezza, dalla paura, dal desiderio di porre fine alla mia vita.

3) Quanto coraggio serve per vivere il disinganno?

Se osservo il mio vivere, mi accorgo della mia precarietà, del mio essere nulla di fronte agli eventi della vita, miei, dei miei cari, del mondo, della mia impossibilità di agire sull’essere umano, sulla sua crudeltà nell’esercitare l’ingiustizia e sulla sua pervicace illusione di esercitare il potere sui suoi simili e sulla natura. Il disinganno è sapere che tutto non è che un’illusione, un’amara, infelice illusione. Accettare? No! Lottare sapendo che la lotta è già perduta.
Ci vuole coraggio. Molto coraggio per amare ciò che non si potrà mai possedere o che possedendolo, si sa che andrà perduto.

Ma se si avrà questo coraggio, il vivere nel disinganno metterà in grado ciascuno di bere e gustare il succo di ogni frutto, nonostante la scorza.

Leopardi ancora una volta lo insegna con i suoi versi e la sua vita e mostra anche che il coraggio genera fantasia e immaginazione. Ecco a cosa giova il disinganno: a creare quel grande motore che si chiama utopia, vivendo e sviluppando le grandi risorse dell’essere umano, nonostante l’ineluttabile agguato della morte.

17 risposte a “TR3 – Risponde Marcello Comitini”

  1. Muy bueno Marcello! Grazie!
    J re

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    1. Muchas gracias, Juan, por haber dado a Simon la ocasión de entrevistarme. Así, tuve la oportunidad de intercambiar opiniones y pensamientos con una persona profundamente sensible e inteligente.

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  2. Il mio sincero grazie a Simon James Terzo che con la sua sensibilità ha notato il mio motto e con acuta intelligenza ha saputo scavare nel mio animo con tale profondità che non ho potuto fare a meno – e gliene sono immensamente grato – di rispondere alle sue numerose domande (qui sintetizzate) permettendomi di ampliare la visuale che il motto, nella sua sinteticità non permette a tutti di intuire.

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    1. Grazie a te Marcello, davvero grazie per svariate e importanti ragioni. Per queste parole su di me ovviamente, sei troppo generoso. Per la tua assoluta disponibilità, la tua grande umanità e la voglia di condividere questa parte di te, di avermi lasciato frugare, seppur con grande rispetto, così a fondo nel tuo pensiero, nel tuo motto che, come spieghi magnificamente, nonostante la sua “sinteticità” ha all’interno un intero mondo, un profondo e reale atto d’esistere, ed una cultura e una radice storica assolutamente da conoscere e comprendere.
      Grazie per questi, e altri, grandi insegnamenti.

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      1. Caro Simon, mi hai commosso, proprio perché vivi con grande rispetto gli altri e la vita tutta. E le tue parole, in particolare di questo commento, sono espressione immediata del tuo modo di vivere. Grazie.

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      2. Ora, caro Marcello, siamo in due ad essere commossi. Grazie.

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  3. Interessantissima intervista e mi trovo in perfetto accordo su ciò che significa per Marcello il disincanto, condizione umana difficile ma anche favorevole alla percezione reale delle cose e persone.
    Sì, ci vuole forza e coraggio per sostenerlo e andare avanti con fiducia nella vita.
    Grazie a voi.

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    1. Grazie a te, Marina🌹. Credimi non pensavo che tu potessi condividere la mia visione della vita. Grazie. Mi hai donato una piacevole sorpresa 🙏🌹

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      1. E invece la vivo e la condivido e, a dirti la verità, a volte grazie al disincanto vivo piacevoli momenti di libertà 🙂

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    2. Grazie a te per averla apprezzata 🙏🏻

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  4. Buongiorno Marcello, volevo ringraziarti per questo intervento perché, pur conoscendo il tuo blog, l’ho evitato a causa del motto, per un semplice motivo epidermico, di conseguenza privo di qualsiasi carattere razionale. E’ un motto molto immediato ma non immediatamente comprensibile, per me una specie di cave canem. Mi sono di conseguenza tenuta lontana.

    Questa intervista, nella quale non ci sono risposte semplici e immediate (scusa se ripeto l’aggettivo), ma risposte complesse a cui dedicare profonda attenzione, è una miniera di riflessioni, è essa stessa un invito alla riflessione, sull’atto di illudersi, su quello del disilludersi, su quello del disingannarsi. I primi due concetti, le chiamerei esperienze, abbastanza semplici da interiorizzare, abbastanza probabili nella vita di un individuo, il terzo apparentemente più ostico, quasi oscuro. Anche perché il dizionario non aiuta poi molto, considera disinganno e disillusione sinonimi, o comunque intercambiabili. Ma non si tratta di una questione lessicale (anche se è da lì che io parto, quando non capisco)

    Un po’ mi consola questo passaggio, dove, ci riporti, il termine disinganno non viene utilizzato, ma permea il significato di un intero scritto.

    “Epitteto ovviamente non parla di disinganno né tanto meno di disillusione quanto di felicità o infelicità.

    Ma il leggerlo conduce a comprendere la natura del disinganno, come ottenerlo, quali personalità sono in grado di conseguirlo e quanto possa risultare nostro alleato.”

    Mi consola, perché forse ho chiaro che cosa sia il disinganno per me, che cosa significhi un certo modo di percepire il reale, anche se non l’ho mai definito disinganno, e forse avrei usato parole diverse, e forse le ho anche usate, probabilmente sono un giro di parole dei miei, una metafora. Un poesia; visto che è il mio modo privilegiato per dire di me quello che diversamente non riesco ad esprimere. Per citarti: mi sento una persona che vive in modo intensamente intellettivo le mie esperienze di vita.

    Mi riprometto di leggere Epitteto, ma penso di avere trovato risposte simili in Montale (Felicità raggiunta per esempio, anche lui usa proprio la parola felicità) perché sono convinta che non si possa scrivere di felicità, se non la si è provata, e non si possa considerarla che uno stato provvisorio, quando questa ci abbandonato. Da qui ciascuno può trarre, a mio modo di vedere, due insegnamenti, o due possibilità. La prima è quella di non ricercarla, per non affrontare la sua fine, la seconda è quella di viverla se capita con la consapevolezza che esiste un dopo con cui si dovrà fare i conti [come dici tu “ Il disinganno non toglie il piacere di vivere, quanto piuttosto dona di ogni cosa che viviamo, incontriamo, amiamo, temiamo, l’esatta dimensione della sua natura (il succo del frutto che beviamo, sapendolo custodito dalla scorza”).]

    All’inizio dell’intervista dici “Disingannarsi non è un atto volontario come non lo è il disilludersi anche se in misura minore. Sono entrambi modi di reagire alla realtà. Mi riferisco ovviamente a chi vive, in modo intensamente intellettivo, le proprie esperienze. Di solito infatti si preferisce illudersi, salvo poi rimanere delusi”

    Non capisco un passaggio. Cosa significa che il disingannarsi non è un atto volontario ma un modo di reagire alla realtà? Non è un atto volontario perché una persona cresce educata al disinganno, ovvero riceve un’educazione che non prevede una alternativa, o meglio, il cui risultato non può essere che il disinganno?

    Mi sembra riduttivo pensare che il disinganno non possa essere una scelta, o una possibilità, un punto di arrivo dato dalle circostanze della vita, (non solo dolorose, ma anche riconoscendo in modo spietato la precarietà del tutto che ci circonda, avendone maturato esperienza)

    La domanda finale è la domanda vitale e tu ne dai una risposta al participio futuro. Siamo morituri, ma lottiamo. “Lottare sapendo che la lotta è già perduta”. Lottare è un infinito col significato futuro. Mi piace questa scelta. Se l’utopia non ci fosse saremmo già morti da tempo, non ci sarebbe alcuna traccia di noi.

    Allora non è vero che tutto è illusione, un’amara infelice illusione. Tutto è precario (non illusorio), quello sì, tutto è destinato a morire, io preferisco dire a trasformarsi, e non lo dico per illudermi.

    L’illusione sì è un atto volontario, si nutre di aspettative, di sogni. Non è amara, ma può generare amarezza. Non è infelice, ma può generare infelicità.
    L’illusione in se è per se sarebbe neutra, se non avesse conseguenze. In un mondo statico sarebbe un orpello, un abbellimento, una decorazione temporanea della realtà (una specie di albero di Natale che per un certo periodo tieni in casa e poi riponi senza particolari conseguenze).

    L’illusione è anche un motore, è slancio, è follia, è una lotta potenziata, stolta, cieca.

    Tu dici che il coraggio del disingannato genera fantasia, accresce l’immaginazione, e ti riferisci a Leopardi. Credo che anche le illusioni abbiano questa capacità creativa, quando sono ancora, lasciami dire, pure, perfettamente costruite per la missione che stanno compiendo, per quanto fallimentare sia questa missione.

    “Aveva cercato le risposte nel bianco. Quando era arrivata in alto sembrava tutto chiaro, tranne la realtà. Allora era rimasta a guardare la finzione fino a quando il telefono non aveva squillato e lei si era risvegliata. Si era chiesta se non fosse giunto il momento di smettere di giocare, rinunciare alla partita, tacere una volta per tutte. Quello che stava vivendo andava oltre la sua immaginazione. Era stare dietro un vetro perennemente appannato, senza possibilità di vedere. E lei non lo aveva rotto. Lo aveva solo pulito con il prodotto giusto, l’oblio. Ma quanto era durata l’illusione? Quella piccola fuga? Quel nascondere la scatola di cioccolatini nei posti più impensabili, ma solo per gli altri? Il rischio. Il rischio è un veleno seducente e senza antidoto. E lei, pur sapendolo, era morta troppe volte. Il desiderio la tormentava insieme a tutte le buone ragioni, che erano altrettanto velenose senza essere seducenti. Aveva creato l’inganno supremo. Attraente come il canto di una sirena. Ma non c’era alcun Ulisse legato all’albero maestro per ascoltarlo. C’era lei che cantava e si ingannava e si avvelenava”

    Termino questo mio lungo commento ringraziando di nuovo te (e Simon naturalmente).

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    1. Cara Lapoetessarossa 🌹, ti ringrazio per aver letto le mie lunghe e affaticanti risposte, che sono sempre e soltanto non ciò che sentimenti e sensibilità suggeriscono, ma ciò a cui la ragione ha concesso l’imprimatur.
      Dal tuo commento evinco subito che tu nutri la Speranza, grande o piccola che sia: in fondo a ogni illusione non prevale la disillusione, ma la speranza di una prossima illusione. Ed è ciò che fan tutti: “passerà, ce la faremo, mai scoraggiarsi, credere in se stessi” ecc. ecc.. Credere nella trasformazione, non è altro che credere in un diversa forma, forse migliore, forse peggiore, ma che comunque adempia alla “missione” del proprio esistere. Io credo che la trasformazione sia una serie di gradini in piano, non in salita né in discesa, che conducono a una sola meta, comune a tutto l’universo. Ecco dove credo divergiamo: io non nutro nessuna speranza né presente né futura, non compio nessuna missione. Ciò che faccio è da essere vivente, con tutte le conseguenze che ogni essere vivente deve affrontare. Mi è dato di scrivere e scrivo. Mi è dato d’amare e amo, di godere e godo, di non odiare e non odio, di soffrire e soffro. Infine mi toccherà morire, come muore la tigre la volpe, l’ottuso bue, le piante le rocce. Nessun essere umano nasce con una missione. Nasce perché l’uomo ha fecondato la donna, oppure perché qualcuno ha sentito il bisogno di espandersi. Mi è stato dato di vivere e vivo. E se mi fosse stato dato il coraggio di non vivere l’avrei già messo in atto. Non devo e non voglio convincere nessuno. Non sono un filosofo e non ho tesi da difendere. Offro il succo delle mie esperienze a chi ha sete, a chi vuol berne.
      Nella mia risposta al tuo commento sul mio blog, citavo il mito della caverna di Platone. Credo che se i prigionieri sin dalla nascita non avessero, oltre le membra, testa e collo bloccati e potessero guardarsi intorno, non vedrebbero più di quel che la caverna offre ai loro sguardi: Ombre che si muovono, che sembrano parlare, che vivono che si fanno la guerra che si amano che muoiono. C’è altro? Sì i prigionieri possono capire, guardando se stessi e dentro se stessi, che tutto è un inganno, anche il loro essere incatenati è un inganno. Se all’improvviso venissero buttati fuori dalla caverna, il loro disinganno non sarebbe un atto voluto, ma un atto necessario, naturalmente consequenziale al loro guardarsi intorno da liberi.
      Cara Lapoetessarosa, nei giorni precedenti, ho cercato se, da qualche parte sul tuo blog, comparisse il tuo vero nome e cognome, perché mi dispiace rivolgermi a uno pseudonimo che già è indice di nascondersi dietro un’illusione, l’illusione di non essere quella che sei realmente, ma solo le parole che scrivi, quelle che ami e che speri che anche gli altri amino. Ma è una tua scelta. E ti confesso che le parole che scrivi mi piacciono.
      Mi scuso anch’io per la lunghezza del commento, ma era un atto dovuto, per me piacevole, come spero lo sia per te.

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      1. Ci ho pensato un bel po’ a questa idea della Speranza. Non saprei dirti se una volta disillusa io attenda una nuova illusione. Vorrei dirti che so bene quando sto facendo uso dell’illusione, come dire, sono un soggetto attivo, attiva anche nel momento in cui mi disilludo. Lo considero parte del processo. Nel concreto so di perpetrare certi meccanismi. Anche qui ci ho pensato e vorrei evitare di infilare questi meccanismi in categorie come giusto e sbagliato. Posso dirti che ho preso coscienza dei pericoli dell’illudersi: quando ero molto giovane l’illusione mi inghiottiva, mi masticava e mi digeriva. Se la vedevo negli altri la mia ragione aveva tutto molto chiaro, ma vivendola in prima persona ero bravissima a mettere la ragione dell’angolo più nascosto della mia anima).

        Detto questo. Ho sicuramente perso le speranze in certi ambiti della vita. Tradotto non mi illudo più.
        In altri ne covo ancora qualcuna. Mi viene naturale. Inutile combattere contro questa stolta abitudine. Ha un che di vitale. Ed è ancora più faticoso disilludermi prima del tempo, o evitare di illudermi. Spes ultima dea? Mah.

        La trasformazione con i gradini in piano è una immagine impossibile eppure chiarisce alla perfezione il concetto.

        Vero tu non compi alcuna missione, il tuo destino è segnato, come il mio e quello di tutti gli esseri viventi. Su questo non posso che essere d’accordo. Anche se l’idea che i miei atomi diventino un giorno un gatto o un foglio di carta non mi dispiace (niente karma, solo fisica o chimica)

        Lasciami dire questo, in questa democrazia del destino noi interagiamo con altre persone. La nostra vita è intessuta di relazioni, tra persone, con l’ambiente dove viviamo. Relazioni non vuol dire missione, certo.
        Le relazioni arricchiscono, nutrono il nostro destino segnato, lo rendono vivo al di là del fatto che un giorno smetteremo di respirare. Ci posso far vivere meglio. Va bene anche peggio, non farmi aprire anche questa parentesi, la tengo sospesa per un prossimo scambio.

        Ti è dato di scrivere e scrivi. E ora hai scritto a me perché io ho letto quello che hai scritto tu, perché tu mi hai risposto e io sto di nuovo rispondendo a te. E non posso fare a meno di pensare che è vero, nessuno dei due lo sta facendo per una missione, ma lo stiamo facendo, perché ci piace (almeno, spero piaccia anche a te, eh sì accidenti sto sperando…) , per quanto mi riguarda perché mi arricchisce, perché nutre una parte di me. Sto vivendo un bel momento.

        Leggere con attenzione, scrivere un pensiero non proprio semplice cercando di farmi capire per il piacere di uno scambio.

        Ecco Marcello, forse ho semplificato il tutto, ho cercato di renderlo un po’ più concreto.

        “Il succo della tua esperienza” è sicuramente molto dissetante e credo possa dissetare certi tipi di sete e mi vien da dire, con un sorriso, certa sete vien bevendo. Perciò, grazie.

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      2. Perdonami, cara Silvia🌹, ho visto solo adesso (e letto velocemente) il tuo commento. Vorrei risponderti ma sono molto stanco: com’è mia abitudine ho appena terminato di tradurre una mia non corta poesia che – proprio per la stanchezza – non se riuscirò a metterla in bozza per pubblicarla domani. Ma ti risponderò perché ciò che ho letto nel tuo commento è molto interessante. Sulla pagina non è più possibile replicare. Quindi mi auguro che wordpress mi consenta di risponderti da qui (il reader).
        Ti auguro una buona serata. A domani.🙏

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