Aveva poco più di trent’anni, eppure era stanco.
Stanco di quel tormento che gli trapanava la testa, stanco di quei problemi alla vista che gli causavano emicranie lancinanti, stanco di non sapersi sentire giovane.
Era stanco di essere stanco.

Prese le chiavi dell’auto, depositate nel vassoio vicino all’albero di Natale pieno di lucine lampeggianti. Come gli piaceva guardarle, quando era piccolo, riflettersi nella convessità delle palline argentate per scoprirsi comicamente deformato. Ma ora era come svuotato, nulla l’attirava più. Solo un gran freddo nel cuore che neppure il calore dei suoi famigliari riusciva a riscaldare. Anche la festosa Messa di mezzanotte, il ricco pranzo di Natale che sua madre aveva preparato con la solita cura, gli erano parsi estranei.

L’auto era in cortile, non sapeva bene dove volesse andare, sapeva solo che una voce lontana lo stava chiamando, forse era il pifferaio di Hamelin che tanto lo aveva fatto sorridere quando era bambino, cent’anni prima.
Guidò per le strade a festa, sotto le luminarie, accanto alle vetrine scintillanti.

Poi imboccò la provinciale, quella che percorreva di solito quando voleva ritirarsi fuori dal mondo, accanto al fiume che, con il suo scorrere, sembrava ricordargli che la vita era così, un passare inarrestabile di momenti, a volte piacevoli, a volte brutti, ma inesorabilmente volti alla fine. Gli rammentava che bisogna sempre cercare di andare avanti perché il fiume, come la vita, non resta ad attendere chi si attarda troppo a racimolare le forze e il coraggio.

Arrivato in prossimità dell’alto ponte di ferro, accostò e fermò il motore.
La vista era annebbiata, non solo per il problema agli occhi, ma perché le lacrime li avevano inondati e restavano un attimo in equilibrio sul bordo delle ciglia prima di rigargli le guance.
Che cosa faceva lì?
Il passaggio di un camion a velocità sostenuta fece tremare l’auto, e lui si sentì ancor più destabilizzato, quasi risucchiato fuori dall’intimità dell’abitacolo che lo proteggeva come un guscio, o come una volta l’aveva protetto il grembo di sua madre.
A quel richiamo uscì, chiuse la portiera con un colpo secco, definitivo, senza preoccuparsi neppure di azionare il telecomando.

L’aria fredda gli colpì il viso, ma quasi non se ne accorse.
Le gambe andavano da sole, senza essere guidate da una volontà cosciente e si ritrovò sul ponte di ferro, a scrutare quelle gelide acque in fondo alla gola profonda incisa dall’Adda. Quando aveva visto un vecchio film, si era chiesto se il “Cassandra Crossing” non fosse proprio quel viadotto.
Ora invece gli tornò alla mente la leggenda che circondava la figura del suo ideatore svizzero e, in un lampo, gli parve di vedere il corpo dell’ingegnere che precipitava nel fiume, un salto nel vuoto, cinquantacinque metri, proprio il giorno prima del collaudo.

Quel pensiero lo riportò al proprio corpo, alla propria vita. Ma era vita, la sua? O solo un calvario che nessun altro capiva pienamente? Si sentiva solo, inerme, sconfitto.

Il rumore delle acque era piacevole, invitante, come il canto delle Sirene che tanto lo aveva attratto quando ne avevano discusso al liceo. Un veloce pensiero a quei tempi sereni, spensierati, trascorsi in un’austerità che forse era eccessiva per un adolescente. Ma quella era la sua indole, un approccio serio alle cose.
Cos’aveva fatto Ulisse per non essere condannato da quel canto? Si era fatto incatenare all’albero maestro.
Ma lui non aveva catene con sé, le mani colme solo della sua pena.

Allora decise di abbandonarsi a quel canto. Decise di lasciarsi trascinare da quel pifferaio magico che lo invitava verso il fiume, in basso. Perché non abbandonare il solito rigore ed essere ancora una volta bambino? Perché non lasciarsi ammaliare da un richiamo che forse lo avrebbe reso finalmente libero?


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16 risposte a “Luisa Zambrotta – Stefano Z.”

  1. Grazie di cuore per aver riproposto questa tragica storia (vera)

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    1. Grazie a te per questa toccante e preziosa testimonianza che hai straordinariamente raccontato.

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      1. Come ti ho scritto, era uno studente a cui ero molto affezionata
        PS: a dire il vero, tutti i miei studenti sono rimasti nel mio cuore, ma alcuni vi hanno lasciato, per vari motivi, un segno più profondo di altri

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  2. Leggendo ero come trasportata verso una conclusione che speravo fosse diversa. Ma Luisa chi scrive è il dovere di scrivere anche la realtà e la realtà spesso è fatta di dolore.e ci si lascia andare.♥️♥️♥️🐈‍⬛

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    1. Cara Paola, anche a me sarebbe piaciuto che tutto si concludesse in modo diverso … ma volevo ricordare Stefano nella tragicità della sua vicenda

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      1. Credo tu abbia fatto la cosa giusta 🐈‍⬛♥️

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  3. Well told tale Luisa. Very sad that it was true. Happy Thursday. Allan

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    1. Thanks a lot for appreciating, dear Allan. Unfortunately it’s a true story and Stefano was one of my students in high school

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  4. Speravo fosse solo un racconto di fantasia, ma avevo intuito che potesse trattarsi di una tragedia reale

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    1. Caro Andrea, questa purtroppo è una terribile tragedia avvenuta qualche anno fa. Stefano era stato un mio studente

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  5. If we only can get past those thoughts long enough to prevent such tragedies. A death such as this takes many people down with it.

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    1. I hadn’t seen Stefano for more than ten years when it happened.

      And I immediately thought: what would have happened if he had called me and told me about it? It’s one of those absurd thoughts that still haunts me

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      1. I understand, Luisa. I have a friend I talked with about a week prior to her committing suicide. I wonder what I missed, what else I could have said.

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      2. Thanks a lot, dearest Mary🥀

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  6. Complimenti Luisa. Difficile capire quanto tormento e solitudine si possa provare, per lasciarsi “trascinare dal pifferaio magico”. La stanchezza del vivere isola talmente da non cercare aiuto e, ancor peggio, da non accorgersi di chi sta cercando di aiutarti.

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